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Forse ho bruciato un po' il pollo (tl. I might've burned the chicken a bit) is a collection of short stories written by first-year art academy students. The project was organized by our Photography course professor, who periodically sent us a historical relevant photographies as a way to inspire a new text.
These are my submissions. Link to the book at the bottom of the page.

Original language is displayed. Read in English instead?

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Joachim Schmid, No.460, Rio de Janeiro, December 1996

È cominciato tutto durante una gelida mattina di novembre, troppo fredda per quel periodo, ma questo non era rilevante per lei. La adocchiai mentre lasciava, con una certa indecisione, la strada principale che giornalmente percorreva per raggiungere il lavoro. La seguii così fino ai giardini pubblici, che da lì distavano qualche isolato, dove finalmente sì fermò, abbandonandosi su una panchina. Non posso descrivere la rabbia che provai nel momento in cui le sue delicatissime dita sfiorarono quel legno marcio, eppure rimasi a osservare. Sporchi, isolati, e vecchi giardini, eppure ella li scelse come meta; "non mi trovo qua, comunque" diceva il suo sguardo, e questo mi bastò.
Così, mentre il suo corpo si ghiacciava circondato dalla brina, i suoi occhi si sciolsero in pianto, e la sua mente sparì, chissà dove, chissà se, in nebbia.

Mi abituai facilmente a questa erratica routine- questo e altro per poter essere abbastanza vicino a lei, abbastanza per riuscire anche solo a immaginare l’odore della sua pelle. Mi abituai con grande gioia, sì, finché le ore di attesa non divennero giorni, settimane addirittura, e con ogni secondo, con ogni centimetro di distanza da lei, le mie ossa iniziarono a tremare di dolore.
Io mi impegnavo, lo giuro, ad attenderla con estenuante pazienza fuori dal portone del suo palazzo, seduto accanto al caffè, chiuso a quell’ora dell’alba. Lei non sembrava ricambiare, sembrava non accorgersene, addirittura- forse provava qualche sadico piacere nell’abbandonarmi sul ciglio della strada, come un cane randagio, sotto la neve di gennaio e l’afa di luglio?
Provava piacere, pensate, nell’ignorare il mio sguardo tanto affamato, o nel farmi indovinare l’orario della sua prossima uscita?
Eppure continuai a fidarmi ciecamente, perché chiaramente la colpa non poteva essere di quell’angelo caduto, no. Doveva esserci un motivo per cui improvvisamente lasciò il lavoro, il parchetto isolato, il caffè sotto casa. Doveva esserci un motivo per cui il suo appartamento sembrava improvvisamente essere così sicuro rispetto al mondo esterno.

Ignorai l’amara sensazione che mi strinse lo stomaco quando pensai a come fosse ingiusto il fatto che ella non si sentisse protetta, nonostante la mia costante veglia su di lei.

Passò un atroce anno, tra attese e dubbi, finché non arrivò il 24 ottobre, la mia fredda primavera.
Sapevo che lei abitava al quinto piano del condominio. Era ovviamente troppo alto per essere osservato dal marciapiede, e non ebbi scelta se non quella di acquistare l’appartamento al sesto piano dall’altra parte della strada. Questo non fu un ostacolo per me. Sapevo anche che le luci del suo salotto venivano solitamente spente attorno a mezzanotte. Nemmeno questo fu un problema: dormire assieme a lei, sebbene a distanza, era un privilegio.
Quello che non sapevo, e quello che mi turbava, era perché, quella notte, le luci rimasero accese fino all’una del mattino. “Eppure, stamattina ha fatto colazione piuttosto presto. Un toast bruciacchiato con caffè decaffeinato, alle otto e quaranta del mattino”, pensai. Che fosse ancora sveglia? No, non è possibile, lei aveva bisogno di dieci ore di sonno. Che si fosse addormentata senza accorgersene? Non è da lei, no, e io sarei stato il primo a saperlo.
Attesi.
Alle due e trentasei del mattino, il terremoto che da ore percuoteva il mio petto finalmente esplose: qualcosa non andava. Qualcosa non andava.

Uscii barcollando dal mio misero appartamento e, ubriaco di disperazione, attraversai la strada, ormai deserta. Non sarei riuscito a concentrarmi su altro, in ogni caso.
Cercai ciecamente la chiave del suo condominio: mai avevo osato utilizzarla, e mai avrei osato sporcare la sua immacolata dimora con la mia persona, ma questo fu un caso particolare, ed ero sicuro che avrebbe capito.
Senza accendere la luce, salii le scale, sapevo benissimo dove andare, mi bastava immaginare il suo profumo, il suo sorriso,...
La porta dell’appartamento si aprì come per incanto: decise di non chiuderla a chiave perché si fidava di me, sapeva che l’avrei protetta. Avrei preferito mangiarmi le dita, piuttosto che deluderla.
Possiedo un nitido ricordo di quella scena. L’odore di tabacco misto ad uno scadente profumo mi bruciò le narici, il pavimento era ricoperto di vestiti, piatti sporchi, bottiglie vuote, farmaci di vario tipo, sigarette spente. Feci nota mentale di raccogliere un paio di questi cimeli.
Finalmente la vidi, e mai avevo avuto il privilegio di avvicinarmi in quel modo prima d’ora. Era lì, distesa a terra come una Venere. La sua morbidissima pelle era in parte ricoperta da un leggero vestito estivo, i suoi capelli circondavano il suo volto etereo come l’aureola circonda il volto di Maria. Un leggero trucco decorava i suoi tratti, tra cui un dolce rossetto color caldo; con una mano mi strinsi il petto, e le mie ginocchia cedettero alla sola idea che ella si fosse preparata per incontrarmi.
La osservai a lungo, e i miei occhi furono purificati da ogni male. Lei non si mosse più, probabilmente consapevole del fatto che non sarei stato in grado di contenere tale emozione. Con grande difficoltà mossi la mia mano- ma non per sfiorarla, no, questo non sarei mai riuscito a perdonarmelo. Portai la mia mano verso la tasca dei miei pantaloni, e afferrai una piccola macchina fotografica, già stracolma di ricordi di lei.
Non persi tempo, e scattai un’ultima foto.


Piansi a lungo.
Piansi al ricordo del suo sguardo tanto curioso. Piansi al ricordo del rumore dei suoi tacchi dei suoi vestiti vivaci, della sua voce che talvolta intonava dolci note. Piansi, tentando di colmare nuovamente quell’abisso. Piansi mentre strappavo quel ricordo che ad ogni minuto delle mie giornate riapriva profonde ferite.
Non smisi mai di cercarla.

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Carleton E. Watkins, The Wreck of the Viscata, 1868

Ego.
Sono il cielo
E pesante come un sasso
Tutto il cielo
Un sasso annegato
Anche stellato
Sotto la sabbia
Ricopro il mondo
Sotto
Sono sopra l'universo.

꒷꒦꒷꒦꒷꒷꒦꒷꒦꒷꒷꒦꒷꒦꒷꒷꒦꒷꒦꒷꒷꒦꒷꒦꒷

Alfred Stieglitz, The Steerage, 1907

Come tutti, anche io ho un punto di rottura.

Il legno sotto ai miei piedi è leggermente usurato. Il suo scricchiolio al ritmo dei passeggeri più frettolosi è pungente per le mie orecchie. La tortura viene sopraffatta dal pianto di un neonato, che a sua volta ne scatena altri. Mi circonda. Cerco di portare la mia attenzione sulle onde dell’oceano, ma tutto quello che percepisco è un graffiante rumore di schiuma, che ruvida si trascina sulla superficie.

Dovrei vergognarmi, lo so, di non poter evitare di incontrarlo così velocemente.

Mi distrae il sapore di bile che minaccia di emergere. Deglutisco, ma la sensazione si fa peggiore con ogni tentativo di liberarmene. L’andamento esagerato dell’imbarcazione sull’acqua e il ricordo del mio ultimo, lontano pasto, si mescolano nella mia bocca, creando un sapore di un nauseante ricordo.

E vergogna è quella che provo, l’unica catena che mi trattiene dall’esplodere, almeno non immediatamente.

Nonostante il forte vento che volentieri accompagna il navigare, l’aria si è ormai fatta pesante. Il profumo di sale marino è piacevole tanto quanto lo sarebbe il suo sapore; mi chiedo come mai io non possa limitare l’olfatto allo stesso modo in cui viene limitata la vista al chiudersi delle palpebre. Decine di persone attorno a me emanano odori di sudore, tessuto, e la presenza del pesce salato si confonde con quella umana.

Così essa procrastina l’inevitabile, rende ogni secondo di attesa sempre più agonizzante.

Tento così di proteggere il mio sguardo dalla luce accecante del sole, ormai dolorosa dentro le pupille. I miei occhi cadono abbattuti di fronte a me, dove vengono aggrediti da intrecci nauseanti di corde e nodi. Mi rendo conto di non avere via di scampo: gli altri viaggiatori, nel loro sfinimento, si muovono a malapena, pizzicando il mio campo visivo. Il mio sguardo viene spinto prima da una parte, poi dall’altra, tormentato da capi che si inclinano, mani che si aggrappano, petti che respirano.

È come un oceano che goccia per goccia cade in un bicchiere.

Non posso fare a meno di evitare quell’infuocato contatto proveniente da destra, e da sinistra, sulla mia spalla, poi contro le mie costole. Un anziano uomo perde l’equilibrio, stringendo la mia camicia, afferrandomi la pelle. Una bambina corre, urtando la mia gamba, toccandomi il femore, e l’interno di questo.
Si solleva una sottile brezza, mi taglia il viso.

Vorrei cacciare un urlo, ma le orecchie si frantumerebbero.

Vorrei strizzare gli occhi, ma il buio sarebbe soffocante.

Vorrei buttarmi a terra, ma la pelle non mi proteggerebbe.



Non penso ne valga la pena.

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Herbert Bayer, Humanly Impossible (Self portrait), 1932

A volte mi sbaglio
e lo rifiuto.
A volte dimentico
e sono autoimmune.

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Robert Frank, Elevator - Miami Beach Hotel, 1955

Sono estratte le rune iniziali delle tre Norne: la Wyrd si trova nell’ultima posizione. Scelgo di non sostituirla, perché penso che derivi dalla natura fittizia di questa lettura. Rilevante anche il fatto che, trattando un istante già trascorso come se fosse attuale, il futuro ormai non ha bisogno di traduzione.
Estraggo le due rimanenti rune necessarie. La disposizione mi mostra una precedente situazione di blocco, ma di poca rilevanza, che incita finalmente all’avanzamento, ora possibile grazie all'abbattimento di questo ostacolo. Tale abbattimento sembra essere stato possibile grazie a nuove amicizie e grazie alle loro indicazioni: un avvertimento è infatti quello di continuare a seguire il consiglio altrui, senza lasciarsi trasportare dalla solita testardaggine.
Le rune parlano di una situazione corrente che è ormai positiva, e incoraggiano a mantenerla tale prendendo a cuore i consigli anche da parte di nuovi contatti. Non aver paura di conoscere nuove persone, perché l’interazione con loro porterà a buoni risultati. Le difficoltà maggiori sono ormai finite: se continui così, potrai portare a termine piani che prima sembravano irrealizzabili.
Noto che, nonostante i miei sforzi, il mio gatto Pablo Noah non smette di capovolgere la Runa centrale.
Magari mi è sfuggito qualcosa durante l’estrazione, quindi provo a vederla dal suo punto di vista. Nonostante la situazione del passato e le sue cause non cambino, Pablo Noah sospetta una natura egoista che ti spinge a dover affrontare i problemi in solitudine. Unendo le nostre due letture e riassumendole in poche parole, posso dire che permane il grande ruolo del consiglio altrui, così come resta un fondo di dannoso individualismo. Ricorda di lavorare sul fronte sociale, e non ricadere in vecchie abitudini.

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Bill Owens, from Suburbia, We're really happy. Our kids are healthy, we eat good food, and we have a really nice home, 1972

Questa è la differenza tra me e un uovo:

Sono stato un uovo
non nel modo in cui pensi,
ma anche nel modo in cui pensi.

L'uovo è uguale all'altro uovo,
l'uovo marcisce.

L'uovo lo si scava col cucchiaino
finché non rimane il guscio,
sottile e bagnato.

L'uovo ha periodi in cui ti piace,
poi periodi in cui ti nausra.

L'uovo puoi usarlo per dipingere,
ma la tela puzza.

La differenza forse è il centro.
Il suo è giallo.

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Kenneth Josephson, Chicago, 1980

Penso sia la mia immagine preferita. Non penso sia una bella immagine, francamente la ritengo banale e quasi nauseante. Ammetto, però, di non riuscire a smettere di far correre lo sguardo sul suo contorno. Il modo in cui la sua cornice anticipa i miei ricordi è talmente intimo da spaventarmi.

Parlo di alberi che affondano le proprie radici nei cuori delle persone più delicate, e del frutto che ne nasce, il più dissetante che io abbia mai provato.
Parlo di un amore per l'ozio e l'arte, per la critica e per il semplice, in uno scontro destinato a cadere sul pavimento, tra un lenzuolo e una piastrella.
Parlo di un volto talmente elegante da abitare costantemente nella mia testa, obbligato a disegnarlo in modo macchinoso, prova dopo prova - ma mai così perfetto come quando mi si presentava in controluce.
Parlo di interazioni che vorrei dimenticare, almeno quando dormo, osservate attraverso un vetro sporco, forse un po' colorato.
Parlo di un grande fratello che tanto osservava quanto ignorava.
Parlo di un puzzle senza pezzi, il puzzle più impegnativo da scomporre, e decisamente il più piacevole.
Non parlo di associazioni, o obblighi.

lo so cosa è accaduto dietro quella cornice, e rimango neutrale a riguardo. Resto dell'idea che quella sia la mia immagine preferita.

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Andrey Bogush, Proposal for rosengarten, curved line and color, 2014

La farsa del Narciso dice così:

Se la porta dice
tira,
tu che cazzo
spingi?
Brutti stronzi
non esisto,
ma sento tutto.
Per il nulla
non c'è lutto!


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